La liberazione del lager rappresentò la fine simbolica del folle progetto nazista della supremazia della razza ariana che, oltre agli ebrei, prevedeva la persecuzione dei popoli rom e sinti e lo sterminio dei disabili mentali, fisici e degli omosessuali.
Il campo di concentramento di Auschwitz, che all’ingresso accoglieva i deportati con la frase macabra “Arbeit macht frei”, “Il lavoro rende liberi”, fu liberato dalle truppe sovietiche che riuscirono a salvare circa settemila persone abbandonate dall’esercito tedesco in fuga perché ritenute deboli e destinate a morire di stenti.
In realtà, nei giorni precedenti, per cancellare le tracce dei loro crimini, i nazisti avevano fatto saltare i forni crematori 2 e 3 dove negli anni erano stati bruciati centinaia di migliaia di ebrei; successivamente, toccò al forno crematorio numero 5 prima che le truppe sovietiche, comandate dal maresciallo Konev, entrarono e liberarono il campo di sterminio.
Inizialmente, gli internati furono intellettuali e membri della resistenza polacca; più tardi, vi furono deportati anche prigionieri di guerra sovietici, prigionieri politici ed “elementi asociali” come mendicanti, prostitute, omosessuali ed ebrei.
Questi ultimi, nella scala sociale del campo, erano all’ultimo posto e ricevevano il peggior trattamento; le disumane condizioni di lavoro, con le scarse razioni di cibo e le condizioni igieniche pressoché inesistenti, portavano rapidamente i detenuti alla morte.
Le SS selezionarono alcuni prigionieri, spesso criminali comuni di origine tedesca o ariana come supervisori per gli altri detenuti. I Kapo, come venivano chiamate queste figure, si macchiarono di orrendi crimini abusando del proprio potere e divenendo così complici dei propri carnefici.
Intorno al 18 Gennaio 1945, per paura di essere catturati, i nazisti costrinsero tutti i deportati sani a compiere un’ultima marcia della morte verso i campi di lavoro della Germania Ovest.
Le SS portarono con sé circa sessantamila prigionieri e soltanto poche migliaia sopravvissero a questa estrema impresa; infatti, le truppe tedesche uccidevano senza pietà quelli che ritenevano non potercela fare nel lungo tragitto di fame, sofferenza e devastazione.
La liberazione del lager di quel 27 Gennaio 1945 non ebbe nulla di festoso perché, come ricordano molte testimonianze letterarie, le conseguenze sui sopravvissuti furono devastanti.
Le parole de “La tregua” di Primo Levi descrivono perfettamente e cercano di far comprendere, a chi non ha vissuto quei terribili eventi, le emozioni dei sopravvissuti; ancora oggi, per chi è rimasto in vita, quel momento suscita sentimenti contrastanti: dalla consapevolezza dell’offesa subita, alla vergogna di esser sopravvissuti, fino al delirio e alla follia di alcuni, irreversibilmente devastati nel corpo ma soprattutto nella mente e nell’anima.
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