Ormai è ufficiale: rischia, da sei mesi a tre anni di reclusione in carcere, colui che denigra ed offende su Facebook. La notizia ci giunge qualche giorno fa da Roma. A stabilirlo, infatti, è la Suprema Corte che ha, così, ristretto, tramite questa sentenza, il campo di competenza del Giudice di Pace.
La decisione origina da una burrascosa separazione di una coppia italiana, nel 2010.
Segue una querela della donna che aveva accusato l’ex coniuge di averla insultata sui social network, pubblicando abitualmente anche numerosi commenti diffamatori.
La donna, quindi, stanca di essere denigrata in rete si era, in un primo momento, rivolta al Giudice di Pace di Roma, per ricevere giustizia. Ma la diffamazione su Facebook, secondo il Giudice di Pace, era aggravata dal mezzo della pubblicità e, quindi, di competenza del Tribunale.
Inversione di rotta, questa, non indifferente dal momento che, chiamando in causa un Tribunale, l’imputato rischiava di incorrere anche in una sanzione detentiva, quindi ben più gravosa.
E’ l’avvocato del marito, Gianluca Arrighi, ad obiettare, davanti al collegio, che Facebook non può, in alcun modo, essere paragonato ad un blog o ad una testata giornalistica online, dal momento che, il sito in questione, non è da tutti visionabile.
Il collegio ha accolto le argomentazioni dell’avvocato difensore, trasmettendo, allora, tutti gli atti alla Suprema Corte, affinché potesse mettere ordine tra due posizioni opposte. La sentenza della stessa era attesa per lo scorso 28 Aprile 2015 e, a meno di un mese, ha già suscitato nuovi dibattiti, approvazioni e contestazioni.
Ancora sconosciuto è il percorso logico giuridico seguito dalla Cassazione ma, la notizia è certa e definitiva: la diffamazione su Facebook è da considerarsi aggravata dal mezzo della pubblicità e, quindi, punibile anche con la reclusione da sei mesi a tre anni.
Decisione non di poco conto dal momento che gli abituali utilizzatori del web, e non solo di Facebook, potrebbero, in caso di diffamazione, incorrere non più in sanzioni pecuniarie, ma essere destinati al carcere.