La morte di Liu Xiaobo ha destato grande impressione in tutto il mondo. L’intellettuale cinese, Premio Nobel per la Pace nel 2010, è infatti stato il simbolo della dissidenza a favore dei diritti civili in patria, pagando duramente la sua scelta.
La sua lotta è cominciata quasi tre decenni prima, quando in veste di docente universitario inizia a scandalizzare il potere affermando come i conflitti intrapresi dagli Stati Uniti fossero eticamente giusti e schierandosi dalla parte di Israele nel conflitto mediorientale. Discorsi capaci di affascinare i giovani universitari di Pechino e, di conseguenza, invisi al regime, appena uscito dal maoismo.
Nel 1989, di stanza a New York per delle ricerche, non perde invece tempo nel rientrare in Cina non appena appresa la notizia dello scoppio della rivolta di Piazza Tienanmen, adoperandosi per concordare la svuotamento della piazza prima dell’intervento dell’esercito a seguito dell’imposizione della legge marziale.
Il ruolo svolto nel corso della protesta non sfugge però alle autorità, che lo condannano a poco meno di due anni di carcere, con l’accusa di propaganda controrivoluzionaria. Una volta liberato rifiuta l’offerta di asilo dell’Australia, per rimanere in Cina e portare avanti le sue idee in favore dell’avvento della piena democrazia in patria. Confortato anche dalla presenza di Liu Xia, poetessa e compagna di vita con la quale va a vivere nel 1996.
La lotta di Liu Xiaobo è poi proseguita ad oltranza, riprendendo vigore con il nuovo millennio e trovando il suo maggiore simbolo in Charta ’08, il manifesto politico stilato sul modello del documento con il quale i dissidenti cecoslovacchi esplicitarono il loro dissenso nel 1977, in epoca sovietica. Al documento di Liu Xiaobo, nel quale si chiede l’instaurazione di un sistema democratico e di uno stato di diritto, oltre alla fine del monopolio politico del Partito Comunista, partecipano moltissimi attivisti, provocando la chiusura delle autorità.
Arrestato, Liu Xiaobo viene infine condannato nel Natale del 2009, al termine di un processo rapidissimo, per aver incitato alla sovversione contro i poteri statali. Una condanna che, stavolta, si rivela un vero e proprio autogoal, spingendo il comitato per il Nobel ad assegnargli quello per la pace. Una decisione che però spinge il governo di Pechino a forti proteste e al congelamento dei rapporti diplomatici con Oslo. A ritirare il premio, non ci sarà comunque nessuno, se non una sedia vuota a rappresentare l’assenza del dissidente, impossibilitato a lasciare la Cina.