Misteri

La cattura di Saddam Hussein: una montatura del governo Bush

Quella che a prima vista sembrava una cattura in piena regola, non molto dissimile dall’arresto di un qualsiasi latitante, si presta ad ulteriori riflessioni. Se consideriamo molti dettagli di primo acchito insignificanti e li passiamo al vaglio di un’analisi fredda e logica, è possibile intravedere molti retroscena della vicenda.

Le condizioni in cui Saddam Hussein è stato trovato: la sporcizia, il disordine, i segni sul viso e quelli di una nutrizione inadeguata, mal si conciliano con l’immagine di un dittatore, destituito sì, ma ancora con vasto seguito, e che può contare sulla fantomatica valigetta con 750mila dollari. Questi fattori ci inducono a pensare che Saddam fosse stato catturato già in precedenza da altri gruppi (forse curdi) e che fosse poi stato “ceduto” agli Americani, molto probabilmente dietro pagamento della famosa taglia di 25 milioni di dollari.

Questa notizia giunge, non a caso, in un momento di bassissima popolarità dell’amministrazione Bush, che necessitava di qualcosa per mostrare all’opinione pubblica che la guerra che stava conducendo in Iraq, con gravi costi economici ed umani per il proprio popolo, fosse effettivamente utile e che stesse dando i risultati voluti. Inoltre, la cattura del dittatore iracheno avrebbe indotto gran parte dell’opinione pubblica (ma anche di addetti ai lavori) che tale evento avrebbe significato lo sbandamento della resistenza incontrata dalle truppe della Coalizione ed una pronta “normalizzazione” del Paese mediorientale.

Come era facile prevedere, la cattura di Saddam Hussein, e la sua eliminazione a seguito di un processo-farsa (immortalata mediante l’ormai immancabile video girato con un cellulare) non ha sortito altro effetto se non quello di esacerbare gli animi, producendo attacchi più feroci, frequenti ed organizzati nei confronti della Coalizione e di tutti coloro che la sostengono, compresi i consiglieri civili stranieri ed i poliziotti locali. A tutto questo è necessario aggiungere la crescente ostilità ed irritazione di Paesi arabi, anche moderati, che vedono con crescente diffidenza l’occupazione occidentale dell’Iraq, con i rischi terroristici che tutto ciò può comportare.

Il problema effettivo da risolvere, quello di “realpolitik” tanto per intenderci, è quello non tanto della propalata democratizzazione del martoriato Paese mediorientale, quanto quella di trovare (com’era successo qualche decennio fa col Vietnam) una via d’uscita “onorevole” per gli Stati Uniti, e che soprattutto non danneggi le ambizioni di rielezione di Bush o di un altro candidato Repubblicano. Come se gli ostacoli esterni non bastassero, ecco che si presentano anche problemi sul fronte interno. Gli elementi più oltranzisti dell’amministrazione, i cosiddetti “falchi,” sono contrari ad un qualsiasi sganciamento americano dall’area, sabotando anche i tentativi di dialogo con gli alleati Europei, specie con quelli più recalcitranti, come Francia, Germania e Russia.

Alcuni rappresentanti dell’amministrazione, per nulla preoccupati degli effetti di un tale atteggiamento sul piano internazionale, e dell’isolamento che potrebbe derivarne per la più grande potenza mondiale, hanno tenuto a specificare che solo gli alleati più fedeli ed attivi avranno accesso ai contratti ed alle commesse per la ricostruzione in Iraq e in non meglio precisati “impegni futuri”.

Sono proprio questi “impegni futuri” a preoccupare. Si teme che l’Iraq sia solo una parte di una serie di conflitti futuri che potrebbero destabilizzare pesantemente non solo il Medio Oriente, ma anche l’Occidente, già gravato di proprie preoccupazioni di natura economica e finanziaria, e che potrebbe non essere disposto ad imbarcarsi in nuove rischiose, e costosissime, avventure.

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