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Messico: l’esecuzione di Ruben Espinosa e un Paese in cui chi fa giornalismo paga con la vita

Che il Messico in generale (secondo il rapporto Annuale del Centro Cattolico Multimedia, Ccm, si tratta del paese sudamericano più pericoloso dove esercitare il ministero sacerdotale, ndr)  e Città del Messico in particolare, siano realtà violente è risaputo. Parliamo di una Nazione dominata, in molte zone, da feroci bande di narcotrafficanti, con l’omertosa complicità di una una dirigenza politica incapace di contrastare la violenza perpetrata dai cartelli della droga, quando non complice, e di forze dell’ordine, non di rado, a libro paga, degli stessi gruppi che dovrebbero combattere. Naturale, quindi, che le uccisioni violente siano all’ordine del giorno.

Ultimamente, però, si sta assistendo a un cambio di strategia da parte dei malviventi, la violenza, infatti, si sta concentrando sempre di più verso chi cerca di contrastare il malaffare tramite inchieste giornalistiche. È questo probabilmente lo scenario in cui ha trovato la morte un giovane foto giornalista. Si tratta di Ruben Espinosa 31 anni,  torturato a colpi di machete, e finito con due colpi di pistola in pieno volto. L’uccisione è avvenuta sabato 1 Agosto, insieme a quattro donne e  le indagini che inizialmente, come d’abitudine, non avevano portato a nulla, stanno trovando, però, in queste ore nuovo slancio grazie all’ondata di protesta (decine le associazioni di giornalisti e le organizzazioni di diritti umani scese in campo) che è nata spontaneamente subito dopo l’uccisione del giovane professionista.
Ruben era un fotografo d’assalto, andava in giro con la sua reflex per documentare le quotidiane azioni di violenza perpetrate dagli uomini che fanno parte dei cartelli della droga, il giovane non aveva paura a documentare anche le collusioni tra uomini politici e gangster, e per questo aveva acquisito una certa popolarità tra le strade della città messicana in cui operava.
Il fotografo che si sentiva minacciato, era giunto nella capitale da pochi giorni, non aveva avuto problemi a denunciare innumerevoli pestaggi che aveva subito a Veracruz, soprattutto per mano di uomini riconducibili al governatore della citta Javier Duarte, che lo stesso Espinosa aveva ritratto in un’occasione con un cappello di poliziotto e uno sguardo di sfida, per una copertina del giornale per cui lavorava, “Proceso Veracruz”, che non lasciava spazio alla  fantasia, titolando ” Veracruz,uno stato fuorilegge”.
Il suo arrivo nella capitale era dovuto proprio ad una fuga del reporter che aveva trovato rifugio in una casa per studenti, poi assaltata da dieci uomini armati di machete.

Non ha dubbi, Felix Marquez, che con Ruben aveva  lavorato per dieci anni nello stato di Veracruz (la regione che vanta il maggior numero di giornalisti assassinati, ben 103 in 15 anni, ndr.), su achi debbano essere addossate le responsabilità

“Credo che sia stato il reportage è costato la vita al mio amico”, salvo ripensarci, e sottolineare: “No, la colpa non è delle foto, la responsabilità va ricercata in chi  i crede di poter governare il Paese con la violenza e di chi gli permette di restare impunito”.

E per comprendere ancor meglio l’inestricabile intreccio di torbidi interessi fra narcotrafficanti, istituzioni, imprenditori e politici locali, si pensi che Espinosa, nasceva come giornalista del sociale. 400 dollari al mese, ed un ricercato bianco e nero che impiegava per raccontare le contraddizioni del proprio territorio e la fatica quotidiana della gente.
Inquadrare le diseguaglianze sociali ( un pestaggio l’aveva subito in occasione di una protesta dei maestri, un’altra categoria delle più attaccate, come dimostrano i 12 insegnanti spariti nel nulla e le 4 maestre violentate, dopo la protesta della categoria nel mese di Febbraio per reclamare gli stipendi arretrati), però, in una zona dominata  dai Los Zetas, non era probabilmente la cosa più raccomandabile e lo stesso Espinosa, così, alla televisione aveva denunciato il tentativo di corruzione di un portaborse del governatore locale che, in cambio di soldi, gli aveva chiesto di stracciare foto compromettenti
Ed erano seguiti i pedinamenti, le minacce, gli avvertimenti da parte di uomini in nero che avevano preso a girargli attorno, tanto da indurlo a cambiare aria, anche se non è bastato.

Con quest’ultima uccisione sale  a 119  il numero dei fotoreporter uccisi dal 2010 ad oggi, un dato che rappresenta uno dei più alti in tutto il mondo, e non fa altro che attirare l’attenzione su una situazione che sono in molti a giudicare sempre più esplosiva, e che rende il Messico uno dei posti più pericolosi al Mondo.

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